giovedì 26 giugno 2008

Memorie dal montacarichi.

Mi chiedo se qualcuno leggerá mai queste parole, scritte con lo sciroppo di tamarindo sulle pareti del montacarichi dell’ Auchan di via Castelforte. Il montacarichi, la mia prigione e la mia salvezza. Auchan, la mia fonte di sostentamento primario. Io, un laido cinquantenne sovrappeso. Cosa ci faccio qua dentro?Ci vivo, signori miei.É la mia casa, il mio rifugio.Lavoravo all'Auchan, ero l'addetto allo smaltimento dei rifiuti e quindi il mio turno era di notte.Quell’ingrato compito mi isolava dalla mia famiglia, l'orario era incompatibile con qualsiasi progetto, dormire di giorno mi faceva sentire un vampiro.Ero sull'orlo di una profonda, immane depressione quando ánnunciarono i risultati elettorali.Da subito le ronde iniziarono le razzie ed io sopraffatto dal terrore mi infilai nel montacarichi per scappare ad una folla inferocita.Una volta che i miei occhi si assuefecero al buio potei notare che tirando una corda il montacarichi saliva dolcemente verso un magazzino nascosto.Lá dentro c'era di tutto, conserve, pacchi di sale e pasta, formaggi, passolini e pinoli.C'erano anche una vecchia radio a galena e una lanterna ad olio.A quel punto feci un bilancio della mia vita e capii che non sarei piú uscito da lí.Mia moglie non nascondeva nemmeno piú i suoi amanti, per lo piú vecchi o alcolizzati, i miei figli passavano le giornate alla play e non mi salutavano quando entravo a casa.Poi, a quanto dicevano i notiziari, la cittá era diventata pericolosissima ed uscire poteva voler dire rimetterci le penne. Perché rischiare? Adesso che sono passate piú di 2 settimane peró ho capito. Quelle erano solo scuse. A me piace vivere nel montacarichi, ho anche manomesso i cavi perché nessuno mi possa riportare indietro. Mi piace perché sono una nullitá; mi piace perché ho paura di tutto.

mercoledì 25 giugno 2008

Noi siamo quello che mangiamo.

martedì 24 giugno 2008

Tina

Il fuoco, le esplosioni, le bande armate, via Brunetto Latini in fiamme. Che cazzo succede in cittá? Non puó esistere solo la morte, non puó esistere solo la sofferenza. E infatti questa é una storia d'amore. Lei si chiama Tina. L'ho vista sulla spiaggia, a Mondello. Era sola e l'acqua le bagnava i piedi. Guardava l'orizzone, con gli occhi spalancati. Il vestitino che indossava era azzurro e si confondeva coi colori del mare e del cielo. O forse lo confondevano le mie cataratte. Aveva i capelli lisci e neri, la pelle chiara. Non so perché ma il mio cervello andó in tilt quando vidi quelle lentiggini rosse sulle spalle di lei. Devo essere pazzo. I miei compagni avevano deciso di fare a pezzi la statua della sirenetta, io avevo coordinato l'azione, ma dovetti allontanarmi per un urgente bisogno fisico. La prostata. Ed ecco che vedo Tina, i suoi piedini bagnati dal mare e quelle adorabili lentiggini sulle spalle. Quando si giró verso di me era esattamente come l'avevo immaginata. Gli occhi neri spalancati che guardavano il mare. Non si scompose quando mi vide e solo dopo qualche istante, imbarazzato, mi resi conto di stringere ancora l'uccello tra le dita. Non si scompose, cazzo. Come se fosse abituata a vedere persone col triplo della sua etá che si reggono l'uccello a pochi centimetri da lei. Ma ecco che si alza, mi prende per mano. A me, propio a me! CIAO SONO TINA. La sua voce é calda come il formaggio del sofficino al formaggio. NON FARMI MALE. Poi la baciai sulla bocca. Certo avrá notato che la mia protesi dentaria non era incollata bene, ma sono sicuro che non importa. Lei mi amerá per quello che sono. Coi miei acciacchi, coi miei affanni. Perché sono umano, e come tutti ho una data di scadenza

domenica 22 giugno 2008

Napalm.

Un attimo di tregua. Mi fermo, respiro affannato, appoggio le spalle al muro. I miei compagni sono qui con me anche se non li vedo. Il fumo é giá alto, la strada sta bruciando. La strada sta bruciando ed é tutto bellissimo. Potrei raccontare di come abbiamo fabbricato il napalm con materiali casalinghi in un cortile a Bonagia o della resistenza contro l'esercito regolare dei dissidenti a porta Felice o della morte eroica di Nino Vigna. Invece no. Non mi va. Preferisco restare qui ad ascoltare le grida dei condomini e fumarmi la mia Merit in santa pace. Accendo. Tiro. Che buono il sapore del tabacco che si mescola all'odore dell'incendio. Sono contento. Contento dell'insurrezione e dei disordini. Non so perché ma sento che devo fare qualcosa, per aggiustare le cose. E non mi va di sbandierare slogan politici o cazzate, fare qualcosa é essenziale, per questo coi miei compagni abbiamo fabbricato il Napalm e dato alle fiamme via Brunetto Latini. Intanto era una via abbastanza piccola e ricca di vie di fuga. Poi c'era la sede dell'ufficio postale peggiore di tutta la cittá. Mi sentivo di merda ogni volta che c'entravo. Per una semplice raccomandata dovevi aspettare almeno un'ora, per non parlare di un pagamento o del ritiro di una pensione! Di certo perdevi tutta la mattinata. Vaffanculo all'ufficio postale di via Brunetto Latini. Vaffanculo ai cassieri, alla direttrice e a tutto il personale arraggiato e senza voglia di lavorare. Il napalm sta facendo il suo dovere. Domani. Domani vivremo in una cittá migliore. Esulto. Sento il principio di un'erezione. Ho un'idea. La proporró all'assemblea. Distruggere le strade di Palermo che contribuiscono a rendere invivibile questa cittá. Spengo la sigaretta sull'asfalto e inizio a fischiettare.

venerdì 20 giugno 2008

Autore di merda!

Mi hanno fatto notare che non avevo attivato il commento aperto, ovvero, potevano commentare i miei sproloqui solo i giá iscritti su blogspot. Quindi la colpa é mia se non ci sono commenti, voglio dire, ció non toglie che siate un pubblico di merda, ma forse ci vuole un autore di merda, per voi. Per farvi felici intendo. Ed io lo sono, anzi RIVENDICO un'anima marrone-cacca, per me, per voi. Per non sentirci tanto estranei, lontani, sperduti. Ognuno nella sua isola, isolani, isolati, isotonici, ma accomunati tutti da un'anima marrone.

mercoledì 18 giugno 2008

Pubblico di merda!

Siete un pubblico di merda!
Io mi passo le giornate a scrivere nuovi post, abbellire il blog, bere cocacola light e fumare sigari e voi non commentate niente. Non é bello. Proprio per niente.
Vi odio.

martedì 17 giugno 2008

La nuova vita.

Fa caldo a Palermo, un caldo che uccide i nonni e irrita i padri. L'acqua di Mondello lambisce le dita dei miei piedi, tocca pirma l'indice, accende lo smalto delle unghie con nuovi riflessi. se ripenso alla mia vita prima delle elezioni faccio fatica a riconoscermi. Ero una ragazza qualunque, con le sue scarpe prada e lo zaino invicta sulle spalle. Pizza e birra il sabato o qualche festa. Ma non voglio pensare al passato. Non voglio pensarci perché mi fa stare male. adesso che le scuole sono state occupate dalle bande armate passo la giornata a fare molotov, o ad aiutare Ada in cucina. La notte invece mi scopano. Ormai non importa piú chi é che mi sbatte sulla cattedra, chiudo gli occhi e cerco di pensare alle cose belle, tipo il mare. L'acqua che lambisce le dita dei piedi. Come adesso. Sono scappata ma so che prima o poi mi ritroveranno. O loro o altri, non importa, ma qualcuno mi troverá e mi costringerá ad accettare di fare sesso con lui e coi suoi compari. Perché piaccio ai maschi. Gli faccio sangue. Sento degli spari dietro di me. No, non sono spari, é qualcuno che sta facendo a pezzi la statua della Sirenetta. Strano che non ci avessero pensato prima. Quelli che mi avevano presa dicevano di essere liberisti rivoluzionari, continuavano a ripetere "rilancio dell'economia" "reddito pro capite" e cose di questo genere, ma poi lanciavano le molotov contro i loro oppositori e mi scopavano la notte. Ovvio, non ero la sola, ma le altre erano piú vecchie, piú brutte e mi trattavano male, con un'alterigia che probabilmente nascondeva un forte senso d'invidia nei miei confronti. Basta, non ci voglio pensare. L'acqua del mare é fresca e lambisce le dita dei miei piedi,ma eccolo. Un vecchio si trascina al mio fianco. Ha la divisa del Palermo,esce fuori la minchia. Lo sapevo.

martedì 3 giugno 2008

Insurrezione: altri 7 giorni piú o meno.

Non posso ricordare molto del nono giorno dell'insurrezione. Non ricordo gli spari, e i mezzi congolati che entrano da Porta Felice, e i bagni di sangue, la guerriglia urbana e la morte eroica di Nino Vigna, insomma tutto quello che poi scriverà l'organo di stampa e che verrá pubblicato nel libro di storia. Nulla di tutto ció. Il mio unico ricordo é dei crampi, e degli spasmi orrendi delle mie gambe e braccia, le vampate di calore e i sudori freddi. Un male che mi scuoteva da dentro, rendendomi cieco, zoppo, vulnerabile, isterico e nervoso. Lena aveva gli stessi sintomi, anche se in maniera piú lieve, mentre se non fosse stato per Ino forse saremmo morti entrambi. Lui non stava male, o almeno non soffriva del nostro stesso male. E al dolore l'avevano abituato le sue coliche, sin dalla piú tenera etá. Dopo che gli insorti avevano incendiato il palazzo in cui vivevo c'eravamo accampati in una grotta nella vallata sul fiume Oreto. Sapevo che il dolore era alle porte perché sudavo come un cane, la cittá non era piú un luogo sicuro ma non avevamo molti posti dove andare. Non ricordo nemmeno come arrivammo all grotta. Quando ripenso a quei giorni vedo solo le nere pareti della roccia nuda che mi avvolgono come un sudario, mentre da fuori la luce del sole mi fa lacrimare gli occhi. Ino mi porta dell'acqua ma io la vomito immediatamente. Dolore, dolore, dolore. Dal mio corpo si alza un urlo che investe tutto il mondo, anzi, tutto il mondo, qualsiasi cosa, inizia a urlare all'unisono con me. Dimentico tutto, anche il mio amore per Lena. Sono solo io e la mia carne che esplode. Non posso dormire, ma non sono nemmeno sveglio. Stavo cosí male che mi sarei iniettato un pugno di terra se solo avesse contenuto qualche molecola di robba dentro. Fu la settimana piú lunga della mia vita.

Insurrezione: giorno 8.

Sono in via Colonna Rotta senza soldi, senza casa, senza eroina e ho pure due persone a carico. Non riesco a vedere il futuro roseo, anzi, penso al suicidio. Come farei? Con la robba ovviamente. Prima la inietterei a Ino, che per come é messo muore subito, poi a Lena ed infine con la stessa siringa mi ammazzerei io, che senza di loro che vivrei a fare? Va bene il suicidio, ma manca la materia prima. Cazzo cosa darei per qualche grammo di brown. Sicuramente mi si legge in faccia. Che voglia irresistibile, cazzo. Camminiamo un pó. Senza una meta precisa. In silenzio. Con gli occhi bassi sull'asfalto e le dita che grattano le nuche. Ci fermiamo ad un portone ad altezza Danisinni. Dal cortile giungono schiamazzi e urla. Entriamo passando da un cancelletto striminzito per ritrovarci in uno spazio abbastanza grande, quadrato. Una discreta folla di persone incita due combattenti, che nudi si fronteggiano al centro dello spiazzo. Sulla sinistra, seduta davanti ad un tavolino pieghevole, una signora magra e appuntita prende le scommesse. Dietro di lei un cartello scrive: Caló 11-Solano 3. Dal balcone di un'abitazione un ragazzino vende MELLONE GHIACCIATO tramite un cesto di vimini. Mi faccio spazio tra le persone, e per una volta mi sento meno derelitto di quelli che mi stanno attorno. Facce segnate dalle cicatrici, abituate alla violenza, stordite dall'improvvisa libertá, inebriate dall'insurrezione. Non capii bene quello che vidi, dovetti aspettare qualche minuto affiché il cervello elaborasse i dati che gli occhi trasmettevano. Erano due vecchi nudi che si sbranavano come cani impazziti, ma senza forza, le dita appuntite, i genitali avvizziti, uno di loro trascinava una gamba rotta mentre l'altro gli tirava i capelli. ANDIAMO VIA! Gridai a Lena e Ino.

Insurrezione: giorno 7.

L'odore del fumo non era un sogno. Mi svegliai tossendo. Gli altri dormivano mentre le vampate accendevano coi loro bagliori sinistri la finestra sul pianerottolo. SVEGLIATEVI PRESTO! Lena ed Ino dormivano abbracciati come due fratellini nella notte, ma non potei fare a meno di notare un'emergente erezione dai pantaloni sgualciti del decenne. Non era certo il momento di fare il geloso. DOBBIAMO SCAPPARE CAZZO! Ino inzió a gridare. Forse per la paura o magari per una colica improvvisa. Ci catapultammo dalla finestra giú in via Colonna Rotta. Una piccola folla stazionava davanti al palazzo ormai in fiamme. La gente sembrava triste e incazzata, ma soprattutto triste. Poi tutti si misero a guardare nella stessa direzione. Era il quarto piano. Ci viveva una coppia di anziani signori, i coniugi Benzo. Zoppo e sempre ben vestito lui, obesa e straprofumata lei. Erano sul terrazzo indecisi sul da farsi, mentre le fiamme avanzavano pericolosamente verso di loro. Ad un certo punto lui inciampó e lei lo aiutó ad alzarsi con amore, ma anche lentamente, con fatica, come si muove la gente grassa. Stavamo tutti con le bocche spalancate, quando un grossa fiammata li investí in pieno. I loro capelli presero fuoco immediatamente, ma per fortuna solo quelli. I POMPIERI NON RISPONDONO. Mi confessó un signore in sandali e canotta. Le fiamme li stavano arrostendo a poco a poco, parlavano tra di loro, tenendosi stretti. Poi successe una cosa strana, li vedemmo entrare dentro, sempre abbracciati, mentre il fuoco li accendeva come fiammiferi e scomparire tra le fiamme. Nell'aria l'odore di bruciato era insopportabile e il fumo nero e denso ti scassava i polmoni. Davanti alla luce abbagliante dell'incendio mi resi improvvisamente conto di avere dimenticato la robba dentro casa. MINCHIA.

Insurrezione: giorno 6.

PAPÁ HO FAME. Disse Ino. E MI FA MALE TUTTO QUI. Indicava la schiena. NON POSSO FARCI NIENTE, NON ADESSO, MI DISPIACE. Guardava dalla finestra quella povera suora e non poteva farci niente. La inseguivano brandendo zappe e martelli, uno forse aveva anche un'ascia ma non si riusciva a distinguere. DOBBIAMO FARE QUALCOSA, PAPÁ! Aveva ragione Ino, ma cosa avrei potuto fare? Da solo contro quei pazzi? LIBIRTÁ O MURTI! Gridavano all'unisono. La monaca correva incespicando. Lasció cadere i sacchetti di plastica per muoversi piú velocemente. L'asfalto di tinse del giallo dei maltagliati di semola di grano duro. LIBIRTÁ O MURTI! Ma loro erano piú veloci, e non perché piú giovani. Non solo, almeno. Era la sete di sangue, la rabbia cieca, il brivido della violenza di gruppo che li spronava a correre sempre di piú. La suora arrivó al portone del convento. Sembrava calma quando premeva il bottone di plastica del citofono. Calma o rassegnata. Lena stava accoviacciata stringendo le gambe e poggiando il mento nell'incavo delle ginocchia, come una bambina sola, e i suoi capelli si accendevano di riflessi dorati accarezzati dai raggi freddi del sole. Passarono degli istanti lunghissimi. Clac! Sentii il rumore del portone che veniva aperto da dentro. La monaca ebbe un attimo di titubanza, poi si piegó verso terra per raccogliere i sacchetti di plastica. NO! Il primo ad avventarsi contro di lei fu un ragazzo dalla pelle scurissima. La afferró per il cappuccio e la fece piegare su se stessa dandole una ginocchiata sulla schiena. Poi gli altri le furono addosso. Dopo poco le armi improvvisate brillavano screziate di sangue. Ino correva da una parte all'altra della stanza girdando. Forse avrei dovuto dire qualcosa ma non mi venne niente. Preparai le siringhe.