Io c'ero. Quando sbarcarono coi mezzi d'assalto al porto di Palermo. Quando entrarono coi cingolati in via Crispi. Quando sparavano i lacrimogeni dalle jeep. Io c'ero ed era il mio battesimo del fuoco.
Non so nemmeno io perché o contro chi combattevo, ma ero pronto a sacrificarmi, e come me molti altri giovani ultrá palermitani, gente abituata ai soprusi delle tifoserie avversarie, alle imboscate nei treni durante le trasferte, alle provocazioni delle forze dell'ordine. Ci chiamarono uno per uno a telefono la mattina dopo le elezioni. SIAMO ORGANIZZATI. Ci dissero. ABBIAMO ARMI. Arrivai alla sede con un ragazzo che avevo giá visto accoltellare un tifoso rosso-blu. Nino era il suo nome e aveva alle spalle una lunga storia di diffide e riformatorio. La sua bellezza accecante mi faceva rincoglionire, parlava solo dialetto ma io cercavo di imitarlo, goffamente. AMUNÍ. Anche quel giorno era accanto a me. Indossava una tuta adidas e un casco integrale. I suoi muscoli guizzavano sotto il tessuto sintetico e i pantaloni gli scolpivano un sedere fidiano. C'era caldo al porto e subito iniziarono a sparare lacrimogeni. DISPERDETEVI E NON VI SUCCEDERÁ NULLA DI MALE. Gridavano coi megafoni. Poi iniziammo a sparare. Eravamo mille, forse piú. Nino correva veloce. Saltó su una jeep dell'esercito. Io lo seguii. Lo vidi mentre lottava contro sei militari, solo e schiumante di rabbia. Mi gettai nella mischia pensando che forse, se fossi morto, Nino avrebbe pianto pensando a me. Mi stavano schiacciando la bocca col calcio d'un fucile e io ero eccitato, felice, quando vidi la testa di Nino esplodere baluginando al riflesso del sole. Un militare a bruciapelo gli aveva sparato in faccia un lacrimogeno. Tutto si fermó all'improvviso. Anche il mio cuore anche il mio cuore.
domenica 13 luglio 2008
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